La questione ucraina è pian piano scomparsa dai radar delle tv e dei giornali. In gran parte perché negli ultimi mesi questo argomento è stato strumentalizzato politicamente da partiti e movimenti intenzionati a definirsi più o meno pacifisti in vista delle elezioni. La manifestazione nazionale per la pace che si terrà a Roma sabato 5 novembre potrebbe riaprire un dibattito, anche se non reputo lo farà in maniera costruttiva, ma polarizzando il tutto sulla parola pacifismo. Non per demerito degli organizzatori o dei partecipanti ma perché si presterà a facili semplificazioni sia da una parte che dall’altra.
In questi mesi ho assistito a dibattiti surreali su questo termine e su chi può definirsi pacifista. Se consideriamo che il contrario del pacifista è il guerrafondaio potremmo dire che solo chi vuole la guerra non è un pacifista. Fortunatamente sotto la definizione di pacifista possiamo includere la quasi totalità del genere umano tranne qualche pazzo o qualche dittatore o presidente di qualche nazione pseudodemocratica.
Appurato che siamo tutti pacifisti perché alla guerra preferiamo vivere in pace e quindi possiamo evitare di insultarci sull’uso del termine, le differenze arrivano nel dibattito su come mantenere o ottenere la pace. Su questo potrebbe essere utile avere dei dati perché la frase “tacciano le armi e parli la diplomazia” è bella, ma se dall’altra parte le armi non tacciono è difficile che ascoltino le mie parole.
UNA GUERRA SCOPPIA PERCHÉ UNA O PIÙ PERSONE SI PREFIGGONO UN OBIETTIVO CHE NON POSSONO RAGGIUNGERE CON ALTRI MEZZI, MA COME FINISCONO LE GUERRE?
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ci sono state più di 60 guerre interstatali. Secondo il Journal of Peace Research circa il 20% sono finite con una vittoria di una parte sull’altra mentre circa il 30% sono finite con un cessate il fuoco che non ha portato poi ad uno stabile trattato di pace. Infatti solo una di queste guerre – su circa sette – è finita con un trattato di pace riconosciuto. La rimanente parte ha avuto un esito diverso con conflitti congelati, contendenti esausti o vari epiloghi.
Questo ci fa capire come la diplomazia sia un’arma formidabile ma al tempo stesso occorre che ci siano i presupposti affinché possa fare il suo corso. Bisogna anche aggiungere che molto spesso i vari “cessate il fuoco” o “trattati di pace” possono durare molto poco. Sempre secondo la stessa fonte circa il 37% dei conflitti che terminano con un trattato di pace si riaccendono in pochi anni. Quindi è più probabile che una guerra venga vinta da una delle due parti piuttosto che le due parti trovino un accordo diplomatico.
COME SI DECLINA TUTTO QUESTO CON LA GUERRA IN UCRAINA?
Senza dubbio il primo passo per una pace durevole tra Ucraina e Russia sarebbe un cessate il fuoco e poi un trattato di pace, ma per arrivare a questo occorre che si avverino delle condizioni.
Come già detto una guerra scoppia perché l’aggressore ha un obiettivo e termina per due motivi: o perché l’aggressore raggiunge quell’obiettivo o perché non può più raggiungerlo.
Questo concetto così semplice viene quasi sempre tralasciato nel dibattito quotidiano su questi argomenti.
Nella sua opera “Della Guerra”, Clausewitz parla di “culmine” o “punto culminante”. Questo culmine è rappresentato da quel momento in cui lo Stato aggressore non può più sostenere la sua avanzata, per vari motivi. Una guerra viene vinta dall’aggressore se raggiunge i suoi obiettivi prima di arrivare a tale punto o viene persa se chi si difende riesce a far raggiungere all’aggressore tale culmine. Nella vile aggressione russa nei confronti dell’Ucraina tutto questo è molto chiaro. Per esempio la Russia avrebbe potuto raggiungere velocemente i suoi obiettivi iniziali, senza avere il rischio di raggiungere il culmine, se non ci fosse stata una strenua resistenza ucraina e un supporto della comunità internazionale. Qualche mese più tardi invece abbiamo assistito ad una Russia che cambiava i suoi obiettivi, ridimensionandoli, proprio per non raggiungere quel culmine allontanando quindi quelle condizioni per un tavolo di pace.
I motivi per cui questo punto può arrivare o no sono i più disparati. Ovviamente l’aspetto economico e militare sono i primi: se non ho più soldi per fare la guerra o non ho più uomini e mezzi vuol dire che ho già raggiunto tale limite. La possibilità di vittoria è un altro aspetto fondamentale anche se in questo si inseriscono dinamiche particolari come potrebbe essere quella dell’orgoglio nazionale (la nostra patria non può perdere) oppure disinformazione sulle reali condizioni del conflitto dovuta a incapacità o ad una pessima condizione della macchina statale (in alcuni casi l’idolatria verso il leader rende impossibile comunicargli brutte notizie). Incidono anche le reazioni degli altri soggetti esterni che possono essere non solo di condanna ma anche di isolamento economico, come nel caso delle sanzioni che rendono impossibile per la Russia, a titolo di esempio, sostituire molti dei missili che stanno lanciando in queste settimane e che per la grande maggioranza vengono intercettati (la Russia per l’high tech dipende molto dall’occidente).
Le reazioni interne possono avere un grande peso in una democrazia, meno in un regime. Infine c’è un aspetto che spesso viene sottovalutato ossia la credibilità di un eventuale accordo di pace e gli incentivi che spingono le parti ad accettare un accordo. Su questo c’è molto da riflettere e spiegherebbe anche la reazione ucraina degli ultimi mesi.
La “soluzione” propugnata da alcuni di cedere dei territori alla Russia non solo viene vista da Kiev come irricevibile, giustamente, perché è una palese violazione dell’integrità territoriale ma anche perché non dà nessuna garanzia che un’eventuale pace sia duratura. Qualcuno può garantire oggi che dagli eventuali territori ceduti alla Russia non ripartirebbe una nuova invasione che punterebbe ad Odessa per arrivare fino in Transnistria? Quale incentivo verrebbe fornito all’Ucraina per accettare lo smembramento del suo territorio considerando che tra qualche anno potrebbe fronteggiare una nuova guerra?
Questo aspetto non viene mai preso in considerazione soprattutto da chi invoca una pace “qui e subito”, dove per “subito” intende oggi e “qui” intende che non incida sulla sua qualità della vita, mentre può tranquillamente incidere su chi la guerra la sta combattendo e forse dovrà ritornare al fronte tra qualche anno.
Al momento le cose che si possono fare è continuare a lavorare per evitare un’escalation e per quanto ne scrivano o urlino certi sciamani televisivi, la NATO e i vari Paesi stanno facendo un buon lavoro senza cedere a provocazioni, rimanendo nell’alveo tracciato dall’Art. 5 del Trattato. Al di là di alcune esternazioni di qualche leader, che anche per me non servono, i canali con Mosca sono comunque aperti, il problema è che al momento non c’è molto da dire. Finché non si arriverà al punto culminante i canali di dialogo restano vuoti, l’importante però è mantenerli aperti.
VENIAMO ORA AL NOSTRO FRONTE INTERNO
Su questo punto mi permetto di dire qualcosa su coloro che per esigenze elettorali fino ad ora hanno continuato a dire che c’è bisogno di diplomazia: lo hanno ripetuto solo per un posizionamento politico e qualche voto.
Molti italiani scendono in piazza avendo nel cuore un sentimento genuino di pace mentre permettetemi di vedere molta più malizia nelle motivazioni di alcuni politici. Ad un cittadino possono sfuggire queste dinamiche ma non posso concepire che politici che hanno rappresentato l’Italia in consessi prestigiosi credano veramente che basti dire che bisogna fare la pace per averla veramente. Possibile che non comprendano che quei canali di dialogo non possono portare a qualcosa senza una motivazione al dialogo, imposta o sopravvenuta? Suvvia.
L’approccio demagogico a questi temi porta solo ad un’inutile polarizzazione che fa danni a tutti, come nel caso della stupida diatriba su chi può essere considerato pacifista. Permettetemi di spendere due parole anche su questo. In Italia fortunatamente ci sono pacifisti che lavorano ogni giorno per questo scopo e ho la fortuna di conoscerne alcuni e mi dispiace quando vengono accomunati con personaggi che scendono in piazza per il loro antiamericanismo o per qualche vecchia ideologia ispirata ad un’Unione che fu e che per fortuna mai più sarà, oppure quando i loro sforzi vengono usati da altri per interessi politici.
Il “culmine” è ancora lontano, quanto non si sa. Putin sta giocando la battaglia del gas, l’Ucraina sta resistendo in una maniera sorprendente e l’Occidente sta tenendo duro sulle sanzioni. Su questi aspetti manifestazioni e piazze non incideranno, a meno che non siano russe, ma questo dal mio punto di vista non sminuisce la volontà di coloro che vogliono scendere in piazza per rivendicare il diritto di vivere in pace.